Corte Costituzionale, sent. n° 41, 2 marzo 2018.
L’incertezza in ordine alla interpretazione dell’art. 656 co. 5 c.p.p. aveva portato ad una situazione paradossale a seguito dell’introdotto comma 3 bis dell’artico 47 L. 26 luglio 1975, n° 354: diversi uffici di Procura eseguivano ordini di carcerazione per pene tra i tre anni e un giorno e quattro anni senza emettere decreto di sospensione. La problematica, emersa in giurisprudenza dal 2016, risale al momento dell’introduzione nel sistema, con uno dei decreti c.d. “svuotacarceri” (DL 146/2013), dell’affidamento c.d. “allargato”, inserito nel co. 3 bis dell’art. 47 OP per pene anche residue fino ai quattro anni. A seguito dell’introduzione della misura, era evidente il mancato coordinamento della disposizione con la norma sulla sospensione dell’esecuzione di cui all’art. 656 comma 5 cpp, che la rendeva inapplicabile per chi volesse accedervi dallo stato di libertà, nonostante il tenore della disposizione. In questo quadro si inserisce la decisione della Corte costituzionale, che, ritenuta la violazione dell’art. 3 Cost., ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 656 co. 5 c.p.p. nella parte in cui non prevede che il pubblico ministero debba sospendere l’esecuzione della pena detentiva, anche se costituente residuo di maggiore pena, superiore a tre anni e fino a quattro anni. La Corte ha statuito che “mancando di elevare il termine previsto per sospendere l’ordine di esecuzione della pena detentiva” anche all’affidamento allargato, il legislatore non è incorso in un mero difetto di coordinamento, ma ha leso l’art. 3 Cost. dando luogo ad un “trattamento normativo differenziato di situazioni da reputarsi uguali, quanto alla finalità intrinseca alla sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva e alle garanzie apprestate in ordine alle modalità di incisione della libertà personale del condannato”.