Cass. pen., sez. II, 04.12.2015, n° 49090. Massima.
L’art. 7 d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito in l. 12 luglio 1991, n. 203, configura due ipotesi di circostanze aggravanti: la prima relativa al reato commesso dal soggetto, appartenente o meno all’associazione di cui all’art. 416 bis c.p., che si avvale del metodo mafioso, ai fini della cui integrazione non è necessaria la prova dell’esistenza dell’associazione criminosa, essendo sufficiente l’aver ingenerato nella vittima la consapevolezza che l’agente appartenga a tale associazione; la seconda, invece, postulando che il reato sia commesso al fine specifico di agevolare l’attività di una associazione mafiosa, implica necessariamente l’esistenza reale, non semplicemente supposta di essa, e richiede, ai fini della sua integrazione, la prova della oggettiva finalizzazione dell’azione a favorire l’associazione e non un singolo partecipante.
Cass. pen., sez. II, 20.09.2016, n° 54273. Massima.
La circostanza aggravante del metodo mafioso è configurabile anche a carico di un soggetto che non faccia parte di un’associazione di tipo mafioso ma ponga in essere un comportamento minaccioso tale da richiamare alla mente e alla sensibilità della persona offesa quello ritenuto proprio di chi appartenga a tale sodalizio.
Cass. pen., sez. VI, 29.03.2017, 29816. Massima.
La circostanza aggravante di cui all’articolo 7 decreto legge 13 maggio 1991 n. 152, convertito dalla legge 12 luglio 1991 n. 203, sotto il profilo della “agevolazione mafiosa“, in quanto incentrata su una particolare motivazione a delinquere e sulla specifica direzione finalistica del dolo e della condotta, configura una circostanza soggettiva, a differenza dell’uso del “metodo mafioso” che invece si connota per il carattere oggettivo, derivando quell’aggravante dalle modalità di realizzazione dell’azione criminosa. Pertanto, trattandosi di circostanza aggravante concernente i motivi a delinquere e l’intensità del dolo, alla finalità agevolatrice dell’associazione mafiosa è applicabile, in caso di concorso di persone nel reato, la specifica regola di cui all’articolo 118 c.p., che ne circoscrive la valutazione al partecipe cui esse si riferiscono. In altri termini, l’aggravante può essere applicata solo al comportamento del singolo concorrente che risulti assistito, sulla base di idonei dati indiziari o sintomatici, dalla cosciente finalizzazione agevolatrice del sodalizio criminale, dovendosi comunque escludere l’estensione dell’aggravante agli altri, sul presupposto che la relativa sussistenza sia stata ignorata per colpa o ritenuta insussistente per errore determinato da colpa, perché l’articolo 118 c.p. è norma speciale, per il caso di concorso di persone nel reato, rispetto all’articolo 59, comma 2, c.p.
Cass. pen., sez. VI, 13.06.2017, n° 41772. Massima.
La circostanza aggravante dell’utilizzo del metodo mafioso, prevista dall’art. 7 d.l. 13 maggio 1991, n. 152, non presuppone necessariamente l’esistenza di un’associazione ex art. 416 bis, c.p., essendo sufficiente, ai fini della sua configurazione, il ricorso a modalità della condotta che evochino la forza intimidatrice tipica dell’agire mafioso; essa è pertanto configurabile con riferimento ai reati-fine commessi nell’ambito di un’associazione criminale comune, nonchè nel caso di reati posti in essere da soggetti estranei al reato associativo. (In motivazione, la Corte ha precisato che il riconoscimento della circostanza aggravante in questione rispetto ad alcuni reati fine di un’associazione per delinquere, commessi anche da soggetti estranei al reato associativo, non consente di attribuire necessariamente al sodalizio il carattere della mafiosità).