L’articolo 416 bis del codice penale nell’individuare l’ordine pubblico quale bene giuridico da tutelare contro le associazioni mafiose – che punisce la condotta di coloro che ne fanno parte quando “si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali” – ha inevitabilmente rimesso alla Giurisprudenza il compito di definire i rapporti tra organizzazioni mafiose, imprenditoria e politica, perché, tra imprenditore e/o politico vittima e imprenditore e/o politico colluso, sussistono una molteplicità di situazioni difficili da catalogare, alcune delle quali consentono alla consorteria mafiosa di infiltrarsi nel tessuto sociale, economico e istituzionale del Paese, che finiscono di condizionare la libertà di mercato e di iniziativa economica, nonché la libertà democratica e rappresentativa delle istituzioni pubbliche.
L’associazione mafiosa, solitamente, per penetrare nel tessuto economico locale, sponsorizza un soggetto imprenditoriale compiacente a chi governa le procedure di appalto, al fine di assicurarsi l’aggiudicazione di lavori, forniture e servizi, obiettivo che raggiunge per mezzo della forza di intimidazione mafiosa e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva, che vanta sul territorio egemone, ma che può richiedere, quando occorre, l’uso della violenza per fronteggiare le resistenze di chi tenta di opporsi; in altri casi l’associazione mafiosa, quando trova terreno fertile, anche al fine di non esporre i propri sodali a possibili denunce, preferisce stringere accordi corruttivi con funzionari e politici per consentire all’impresa “compiacente” di vincere la gara di appalto; ancora, l’associazione mafiosa utilizza un proprio soggetto imprenditoriale, l’impresa mafiosa, che si caratterizza per essere una sua ramificazione, una sua costola, che opera dall’interno di essa, e ne condivide pienamente gli scopi. In quest’ultimo caso trattasi per lo più di imprese che utilizzano prestanomi per aziende che diventano mafiose o addirittura nascono mafiose, aventi la finalità di voler controllare settori dell’economia, e, forti del riciclaggio di denaro proveniente dalle diverse attività illecite della consorteria mafiosa di cui fanno parte, sicure di disporre di grosse risorse finanziarie che le consentono di avere una solida e organizzata struttura aziendale, capace di godere delle più avanzate tecnologie, riescono ad aggiudicarsi facilmente le gare di appalto, senza nemmeno stringere accordi collusivi e senza avvalersi dello strumento della intimidazione, della minaccia o violenza.
Le organizzazioni criminali di tipo mafioso, dunque, si servono anche di imprenditori, burocrati e politici, solitamente vittime ma alcune volte complici, per affermare e accrescere la propria forza sul territorio.
L’imprenditore indubbiamente, quando è estraneo all’ambiente mafioso, è vittima del sistema, per essere soggetto vessato, che subisce, a meno che dal pagamento della tangente o dal riconoscimento di altri benefici che rende all’associazione mafiosa non riesca a trarre egli stesso alcuni vantaggi. In tale contesto va letto il reato di illecita concorrenza, ex art. 513 bis c.p. Questo reato, introdotto con la Legge Rognoni-La Torre, ha la finalità di evitare che imprenditori, vicini all’associazione criminale, mediante l’uso della violenza o minaccia, assumano posizioni di preminenza sul mercato. Attraverso tale reato, in sostanza, si vuole reprimere “l’illecita concorrenza di stampo mafioso che si realizza mediante forme di intimidazione che tendono a controllare le attività commerciali, industriali, produttive o comunque a condizionarle” (Cass. pen., 9 gennaio 1989, n° 3492). La giurisprudenza ha precisato che “il reato non deve necessariamente realizzarsi in ambienti di criminalità organizzata, né l’autore deve appartenere ad un’organizzazione criminale” (Cass. pen., 15 febbraio 1995, in Riv. pen., 1996, 230); altresì, che “l’art. 513 bis c.p. sanziona solo la condotta sostanziatasi nel compimento di atti di concorrenza illecita posti in essere con violenza o minaccia (boicottaggio, storno di dipendenti, rifiuto di contrattare, ecc.) nei confronti di altri soggetti economici operanti nello stesso settore, mentre è inapplicabile (dovendosi piuttosto applicare altre fattispecie incriminatrici) ad atti di violenza e minaccia, non sostanziatisi nel compimento di atti di illecita concorrenza, pur quando la limitazione della concorrenza sia stata la finalità perseguita dall’agente (Cass. pen., 6 luglio 2011, n° 33791). La giurisprudenza ha chiarito, poi, che “la norma incriminatrice dei fatti di illecita concorrenza mediante violenza o minaccia, ex art. 513 bis c.p., non è speciale rispetto a quella incriminatrice dell’associazione per delinquere di tipo mafioso, ex art. 416 bis c.p., sicché i due reati, attesa l’episodicità del primo e la struttura permanente del secondo, possono concorrere” (Cass. pen., 18 febbraio 2011, n° 12785); altresì, ha chiarito che “il delitto di cui all’articolo 513 bis c.p. concorre con il delitto di cui all’art. 416 bis c.p. anche nell’ipotesi di concorso esterno in associazione mafiosa, stante la diversità delle due fattispecie incriminatrici, caratterizzate, la prima, dall’alterazione della libera concorrenza con violenza o minaccia, la seconda, dall’accordo collusivo tra l’extraneus e l’associazione, volto al mantenimento ed al rafforzamento del potere criminale dell’organizzazione mafiosa” (Fattispecie relativa all’imposizione con metodi violenti e minacciosi, alla ditta aggiudicataria di un appalto di opere pubbliche, di subappaltatori e fornitori stabilmente collegati alle attività di associazione criminale di stampo mafioso denominata “cosa nostra”. Cass. pen., 12 aprile 2007, n° 37528); così, “il delitto di illecita concorrenza con violenza o minaccia, previsto dall’art. 513 bis c.p. e avente natura di reato complesso, non può essere assorbito nel reato di estorsione, trattandosi di norme con diversa collocazione sistematica e preordinate alla tutela di beni giuridici diversi, sicché, ove ricorrano gli elementi costitutivi di entrambi i delitti, si ha il concorso formale degli stessi” (Cass. pen., 10 dicembre 2008, n° 46992; Cass. pen., 12 luglio 2007, n° 27335; Cass. pen., 31 marzo 2010, n° 24172); infatti, “l’art. 513 bis c.p., collocato tra i reati contro l’industria e il commercio, presupponendo una condotta di concorrenza illecita dell’agente e tesa a scoraggiare mediante violenza o minaccia la presenza di altri operatori economici nel settore, ha come scopo la tutela dell’ordine economico e, quindi, la tutela del normale svolgimento delle attività produttive a esso inerenti; invece, la norma sanzionatrice dell’estorsione, collocata tra i reati contro il patrimonio, tende a salvaguardare prevalentemente il patrimonio dei singoli contro atti intimidatori posti in essere da terzi al fine di costringere il soggetto passivo al compimento di un determinato atto per lui pregiudizievole” (Cass. pen., 27 giugno 2007, n° 35613). Dunque, “integra il delitto di concorrenza sleale l’imprenditore che imponga sul mercato la propria attività in via esclusiva o prevalente avvalendosi della forza intimidatrice del sodalizio mafioso cui risulta contiguo” (Cass. pen., 16 dicembre 2010, n° 6462), anche se vessato dall’organizzazione criminale ma sponsorizzato dalla stessa.
Diversa dalla figura dell’imprenditore vittima è, poi, la posizione dell’imprenditore complice, ossia quel soggetto che si pone in un rapporto di cooperazione e reciproco vantaggio con l’associazione mafiosa a seguito di chiari accordi, manifestando una disponibilità verso la stessa tale da sfociare in un rapporto di intraneità (art. 416 bis c.p.), ovvero di concorso esterno (artt. 110 e 416 bis c.p.). In questo contesto l’imprenditore non opera solo per fini esclusivi, ma anche nell’interesse dell’organizzazione mafiosa, cooperando dall’interno di essa, come nel caso del modello dell’impresa mafiosa (concorso interno in associazione mafiosa), oppure dall’esterno, come nel caso dell’impresa complice (concorso esterno in associazione mafiosa).
La corretta qualificazione giuridica delle condotte poste in essere si fonda, pertanto, sull’esatta individuazione dei reciproci vantaggi che seguono il rapporto che si instaura tra imprenditore e politico, da un lato, e clan, dall’altro. Un rapporto, come accennato, che può manifestarsi nella forma del concorso interno ovvero nella forma del concorso esterno in associazione mafiosa, o rimanere relegato nei confini dei singoli reati fine di vario tipo, come il reato di illecita concorrenza (513 bis c.p.), di turbata libertà degli incanti (art. 353 c.p.), di estorsione (629 c.p.), di riciclaggio (648 bis c.p.), di reimpiego (648 ter c.p.), di scambio elettorale politico – mafioso (416 ter c.p.), etc.
In particolare nel concorso esterno (art. 110 e 416 bis c.p.), l’imprenditore e/o il politico, non essendo partecipi dell’associazione (perché non vogliono farvi parte e l’associazione non ritiene che ne facciano parte), adottano una condotta che contribuisce comunque alla conservazione o al rafforzamento della stessa, per partecipare, anche parzialmente, alla realizzazione dell’indeterminato programma criminoso, ben consapevoli del contributo offerto e dei metodi e fini dell’associazione (cfr. Cass. Sezioni unite, 20 settembre 2005, n° 33748, Mannino). Più chiaramente, l’associazione mafiosa, da un lato, e l’imprenditore e/o il politico compiacenti, dall’altro, quest’ultimi privi dell’ affectio societatis sceleris, dunque, si incontrano in virtù di un rapporto di reciproco interesse che, per l’associazione, consiste nel realizzare il proprio programma criminoso (cui può rientrare lo scopo di acquisire sul territorio il controllo di attività economiche ovvero di incidere sulle scelte delle istituzioni politiche), per l’extraneus nel sommare l’interesse personale a quello dell’organizzazione criminale: ad esempio, l’imprenditore “compiacente” condividerà con il clan i profitti dei lavori degli appalti che sistematicamente si aggiudica per mezzo della sua intermediazione, mentre il politico e il burocrate di turno, per pilotare le gare di appalto, per suo conto, avrà assicurati, sistematicamente, i voti elettorali, così definendosi un sistema di tipo clientelare.
Tanto è valso a rappresentare, in sintesi ma non in modo compiuto, quanto siano stati enormi gli sforzi della Giurisprudenza per definire i rapporti tra organizzazioni mafiose, imprenditoria e politica, da sempre difficili da tipicizzare secondo precisi schemi giuridici.
In ultimo, è importante sottolineare quanto oggi talune condizioni favoriscano la capacità delle organizzazioni mafiose di penetrare nel tessuto economico, politico e istituzionale del Paese: si osserva, da un verso, che la politica è maggiormente esposta al compromesso perché costretta alla continua ricerca di finanziamenti per il proprio partito e la propria campagna elettorale, da un altro verso, che l’imprenditoria, stretta nella morsa della burocrazia che allunga i tempi delle gare d’appalto, blocca i finanziamenti, limita gli investimenti, costretta alla ricerca di certa liquidità, è altrettanto esposta alla tentazione di fare affari con la criminalità organizzata, sempre pronta a soddisfare i suoi bisogni. Urge, pertanto, sotto tale aspetto, un sostanziale rinnovamento economico-politico per limitare quanto più possibile la capacità delle organizzazioni mafiose di influenzare settori strategici del Paese, che, inevitabilmente, finiscono di condizionare la libera attività economica e democratica.
Per un’approfondita analisi del contributo causale che deve sussistere perché si possa individuare una condotta di partecipazione ad associazione di stampo mafioso cfr. https://www.studiolegaleattanasio.cloud/il-contributo-causale-del-partecipe-di-unassociazione-per-delinquere-di-stampo-mafioso-cassazione-penale-sez-ii-31-maggio-2017-ud-10-maggio-2017-n-27394/